lunedì 31 marzo 2008

Grazie ragazzi

Grazie ragazzi, per le telefonate d' incoraggiamento
e di conforto. Ma ancora più confortante,
è scoprire che riuscite a cavarvi dagli impacci
nei quali mio malgrado vi lascio.
Spero davvero di riprendermi alla svelta
ed in modo definitivo.
Ci vediamo giovedì, un abbraccio a tutti.
Gigi.

domenica 30 marzo 2008

Gigi guarisci presto!!!

Colgo l' occasione per fare al nostro maestro un augurio di pronta guarigione!

Ringraziamo Giuliano e Luke che oggi hanno diretto i coristi al suo posto!
Grazie!


Coraggio Gigi! Ci vediamo giovedì!

domenica 23 marzo 2008

Molto bene

Anche questa volta ce l'abbiamo fatta!
Ringraziamo il Signore, che ci ha dato
forza, salute e voce, per arrivare dignitosamente
al termine di questa Settimana Santa.
Qualche assenza per problemi di salute,
per qualche giorno di vacanza,
o per amnesie del''ultimo momento,
non hanno impedito di vivere con impegno
il nostro servizio.
Grazie a tutti per l'attenzione con la quale mi avete seguito,
nonostante la mia..... menomazione e bravi
per come avete cantato, dai pezzi più facili ai più impegnativi.
Bravi i salmisti, per la sicurezza, l' intonazione e la chiarezza
con cui hanno cantato alla Veglia, ma vicino ad ognuno,
mentre cantava, c' era tutto il coro.
Appuntamento a giovedì, per fare il punto della situazione
e riprendere il cammino per i prossimi impegni.
Ciao a tutti, Gigi.

giovedì 20 marzo 2008

Auguri

A tutti voi, cari coristi ed alle vostre famiglie,
gli auguri per una:
BUONA PASQUA DEL SIGNORE.

lunedì 17 marzo 2008

Bravi coristi!

Non avevo dubbi che sareste riusciti a cavarvela benissimo anche senza di me.
Ma devo dirvi bravi, per l'impegno ed i risultati.
Grazie anche, per avermi tenuto al corrente di quello che stava accadendo.
I vostri messaggi, le vostre telefonate e le vostre visite in questi giorni di degenza,
mi hanno giovato più delle cure.
Tenete d' occhio gli orari delle celebrazioni e ricordatevi:
"PUNTUALITA' e PARTITURE".
Ciao a tutti.

venerdì 14 marzo 2008

The most important week of the year

Eggià...
si tratta della settimana più importante dell' anno, ecco un memo con le date:

-Domenca 16, palme: ore 9 e 20 ritrovo in duomo per accompagnare la processione, dopo la processione ci si ritrova come la solito alle 11:15 per la messa, sempre in Duomo;
-Giovedì 20, Giovedì Santo: ritrovo alle 20:45 in Duomo;
-Venerdì 21, Via Crucis: ritrovo in Duomo alle 20:45;
-Sabato 22, veglia: ore 21:15 in Duomo;
-Domenica 23, messa di Pasqua: ore 11:15 in Duomo.

domenica 9 marzo 2008

Nuovi debutti

Anche stamattina abbiamo avuto due debuttanti nel ruolo di salmisti
alla Messa delle 11,30.
Nausicaa e Federico hanno infatti superato brillantemente
la prova dell' ambone, cantando il Salmo a versetti alternati,
dimostrando buona padronanza della melodia,
nonostante la giusta dose di sana paura.
Un buon rodaggio assieme a quello di Cesare,
di due domeniche or sono, in vista della grande veglia
del Sabato Santo, dove speriamo di veder allargata
la rosa dei giovani salmisti.

venerdì 7 marzo 2008

Domenica 2 Marzo 2008. Riflessione guidata da Suor Grazia Papola

Ritiro coro santa Maria Maddalena 1Cor 12–13

Nei capp. 12–13 della 1Corinzi Paolo affronta il tema della comunità e del rapporto tra i singoli membri e la comunità.
Il cap. 12, in particolare, ha come tema i carismi, la loro diversità e unità in relazione a una spiritualità di comunione, contro ogni forma di uniformità o di frammentazione; a questo scopo è pure introdotto il famoso esempio del corpo e delle membra. Il tema dei carismi, cioè dei doni spirituali, era probabilmente molto avvertito all’interno della comunità dei Corinzi, al punto da rappresentare un motivo di divisione e di orgoglio, nella ricerca da parte di alcuni dei carismi più importanti o di quelli ritenuti tali, come se da essi si potesse misurare ogni altra dimensione.
Paolo affronta la questione mettendo a tema il rapporto tra molteplicità e unità. Non insiste su una o sull’altra, ma cerca di abbinare le due componenti, per cui una è conseguenza dell’altra e la diversità trova la sua fonte nell’unicità: l’unico Signore dà doni diversi. Ogni membro della comunità è pertanto chiamato a sostenere tale paradosso. La diversità dunque non è dispersione, ma porta il segno o il sigillo dell’unicità. Focalizzarsi su un unico dono è assurdo, perché occorre vedere tutti gli altri.
Paolo non utilizza soltanto il termine «carisma», ma anche «ministero» e «operazione». «Ministero» indica il servizio e la parola scelta fa riferimento a un servizio libero e volontario, diverso da quello imposto allo schiavo. I servizi o ministeri vengono dalla libertà del Signore che dà a ciascuno la possibilità di volere e il potere di fare un servizio nella Chiesa. L’iniziativa, anche in questo caso, è riportata al Signore e il servizio, più che l’atto compiuto, esprime la relazione con qualcuno: si è servi di qualcuno, non di sé o per sé.
L’altro termine, «operazione», indica propriamente l’energia, per cui nel contesto dei doni, esprime l’efficacia, la dinamica, la forza di Dio. Dunque non si intende indicare soltanto la diversità dei doni, ma anche che tutto è efficace perché opera di Dio. L’attenzione è così posta sull’effetto dell’azione: l’uomo, destinatario del dono, ha in deposito il risultato di azioni compiute da un Altro.
A ciascuno dunque è data una manifestazione particolare dello Spirito «per l’utilità comune», un’utilità sia ecclesiale, sia individuale. La manifestazione è per te e per tutti.
L’importanza dell’altro è sottolineata anche dall’ordine delle parole nei vv. 8-10: prima i destinatari su cui è posta l’enfasi con la sottolineatura della loro diversità. Quindi si parla dello Spirito per mezzo del quale è dato il dono e solo alla fine si nomina il dono. Questo vuol dire che Paolo non si concentra sui doni, perché ciò che conta per lui è l’altro, il fratello, non il dono.
Ogni dono dunque deve comprendersi in funzione di un insieme e della totalità.
Per sostenere ulteriormente tale convinzione Paolo si serve del famoso paragone del corpo (vv. 12-26), dando piano piano i criteri per leggere la comunità cristiana come corpo, perché non è evidente che possa essere applicato questo modello alla comunità. Quello che a Paolo preme è sottolineare che ogni singolo ha la funzione di promuovere l’unità per la sopravvivenza del tutto, perché l’unità è essenziale alla vita.
Nell’affermazione iniziale, al v. 12, si parte dall’unità e si ritorna all’unità. Al centro si parla della molteplicità, che allora risulta la via all’unità e non un ostacolo o un elemento contrario o oppositivo. La medesima relazione tra unità e molteplicità compare nel v. successivo, dove Paolo dà il fondamento teologico del suo discorso e della comunità stessa, il battesimo.
Questo vuol dire che l’unità del corpo non viene dai gruppi sociali che formano la Chiesa; Paolo riprende le categorie sociali diversificate (Giudei e Greci, schiavi e liberi), ma l’unità nasce dal battesimo, nasce dalla partecipazione al mistero della morte e resurrezione del Signore Gesù. È dunque un principio che supera ogni unità sociale e si radica nel mistero di Dio.
Con il v. 14 inizia il paragone vero e proprio che si può suddividere in due parti. Nella prima prendono la parola il piede, simbolo del movimento, e l’orecchio, simbolo dei sensi. Piede e orecchio erano ritenuti parti inferiori rispetto alla mano e all’occhio. Le oro affermazioni sono pertanto espressioni di auto disprezzo e tuttavia, dice Paolo, non perché lo dicono lo sono.
Nella seconda parte (vv. 21-24) sono invece le membra superiori a esprimere il loro disprezzo per quelle inferiori, ma anche in questo caso il ragionamento, dice Paolo, non funziona. Dunque, nessuno può disprezzarsi e nessuno deve minimizzare il ruolo dell’altro, ma è necessario un rispetto nei confronti di tutti. A fondamento di ciò c’è la convinzione che è Dio ad aver voluto che il corpo ecclesiale fosse così.
Riportando il paragone alla situazione della comunità di Corinto, esso manifesta che non ci sono carismi più importanti di altri, al contrario è necessaria la diversità e la complementarietà dei membri per la costruzione e la valorizzazione dell’unità. È la molteplicità a manifestare, paradossalmente, l’unità e la favorisce.
Contro la divisione e l’orgoglio Paolo afferma che, in quanto membra dell’unico corpo, ogni membro va considerato come appartenente a me, parte di me, mia ricchezza, pur o a motivo della sua diversità da me; si tratta pertanto di recuperare la visione autentica della comunità e dei diversi carismi che si manifestano al suo interno.
I carismi perciò non vanno considerati in sé, ma in funzione di un insieme. Certo, c’è una gerarchia di carismi, ma non è detto che quello che conta di più, quello più evidente, sia anche il più importante. Ciò che effettivamente vale è che ogni carisma è in relazione agli altri.
Non si tratta di distinguere o di opporre, ma di riflettere a livello comunitario su ciò e ad accogliere la sfida.
A conclusione di questo discorso Paolo invita a non disprezzare, ma a desiderare i carismi più grandi, e nello stesso tempo egli mostra la via migliore di tutte (12,31). Innanzitutto non si parla più di carismi ma di «via», identificata con l’agape, vale a dire l’amore di Dio che abita nell’uomo e ne plasma la vita. La via è il comportamento dell’uomo, il suo atteggiamento, il modo in cui vive. Essa è oltre i carismi e Paolo la qualifica con una locuzione particolare che può essere resa con l’aggettivo «smisurato», per indicare l’eccedenza che intende segnalare. Questa via non è pertanto semplicemente la migliore, ma è la via per eccellenza, anzi, è l’unica via possibile per il discepolo; per questa ragione, se mancasse l’agape, uno non è più ciò che è, cioè credente e membro del corpo di Cristo.
I carismi elencati al cap. 12, infatti, sono doni spirituali dati da Dio per occasioni precise e non sono distribuiti a tutti; ogni carisma, cioè, è un dono divino, utile alla persona stessa o ad altre persone, un dono che corrisponde a una diversificazione delle membra del corpo di Cristo e quindi non si trova in tutti i credenti. L’agape, invece, non può essere un dono del genere, dal momento che va dato a ogni credente continuamente. Gli altri doni possono esistere senza la carità, che è invece qualcosa di più interno e indispensabile a tutti i credenti. Paolo così passa dall’esterno all’interno, cioè dall’organizzazione esterna della chiesa, con la molteplicità delle mansioni, al principio di vita dal quale dipende il valore di tutto il resto.
Dopo la breve introduzione di 12,31, i primi tre versetti sono costruiti secondo uno schema fisso e ripetuto: un periodo condizionale costituito da due protasi, una positiva («se parlassi», «se avessi», «se offrissi e dessi») e l’altra negativa («ma non avessi») a cui segue un’apodosi. Ogni volta l’opposizione che si stabilisce è tra tutto e nulla. Nei vv. 1-2 troviamo prima un avere, poi un avere tutto, che entrambe le volte sfocia in un non essere; al v. 3 dall’avere si passa al perdere tutto, per mostrare l’estremo del dono. Si va dal dono meno prezioso a quello più prezioso con una opposizione tra eventualità e realtà.
Paolo parla alla prima persona e non in generale, sia per evitare di accusare o di offendere qualcuno sia per presentare il suo discorso come una duplice confessione, del bisogno di avere la carità, e del pentimento per non averla e come un invito a desiderare di averla. Le parole dell’apostolo sono così la confessione di un io credente e dunque acquistano una tonalità serissima: se uno non ha la carità non è di Cristo; la mancanza della carità tocca in maniera determinante l’identità stessa del credente.
Avvertiamo in particolare il paradosso al v. 2, dove Paolo parla della fede. È ovvio, infatti, ritenere che sia la fede a definire il credente, ma qui non è la fede a farlo, e ciò è tanto più provocante perchè si allude a una fede straordinaria, come quella di Abramo, al credere l’impossibile.
Nel v. 3 si arriva al dono di se stessi fin alla morte o alla perdita della libertà. La mancanza di carità rende però anche questo gesto estremo privo di qualsiasi vantaggio o aiuto. Di nuovo, l’effetto raggiunto è paradossale: se non ho agape e dessi tutti i miei averi/la mia vita così da non avere più niente, non ho davvero più niente, nel senso che essere privi di amore porta veramente all’annullamento di qualsiasi vantaggio atteso dalle prestazioni straordinarie dell’uomo.
Nella comparazione tra quello che l’uomo ha e ciò che non ha, il suo possesso, per quanto straordinario, risulta praticamente un nulla, dal momento che è l’amore che gli manca; l’agape pertanto è un bene così importante da far impallidire il valore di qualunque cosa si possiede. La privazione di cui soffre l’uomo vuoto di agape lo rende mancante, insignificante, inesistente.
La posta in gioco è dunque l’essere dell’io, l’identità: ciò che dà l’identità del credente non è la fede solo, ma l’agape. Il punto essenziale e imprescindibile per un credente non è il fare o l’avere, ma l’essere e l’essere è determinato dall’amore.
Paolo,dunque, insiste sulla necessità della carità per l’identità del credente, ma ancora non ha detto cos’è l’agape. A questa determinazione sono dedicati i vv. 4-7, in cui l’amore diventa il soggetto di 15 verbi, che esprimono ciò che fa l’amore e ciò che non fa. L’amore non è descritto in se stesso, né qualificato con aggettivi, come potrebbe apparire dalla nostra traduzione, bensì mostrato in azione e che tutte le azioni riguardano la rete dei rapporti interpersonali e sociali.
I verbi non sono posti a caso, ma l’intenzione è quella di far passare dalla considerazione del male che non si fa a non rendere il male, fino a non rallegrarsi del male fatto a un altro. Paolo non dice che l’agape «non fa del male», perché questa espressione fa riferimento a un male evidente, mentre qui il male di cui si parla fa riferimento al male sottile, quello compiuto dalle persone spirituali. Tutti i termini scelti indicano, infatti, egoismo, vanità, orgoglio, e descrivono atteggiamenti e modi di fare che attaccano e fanno male agli altri. È un male, dunque, che suppone il discernimento, cioè la capacità di vederlo e distinguerlo al di là delle apparenze. È il male che fa ombra all’amore di Dio riversato già nel cuore dell’uomo.
I primi verbi descrivono gli atteggiamenti di pazienza e magnanimità, contrari alla durezza del cuore che impedisce o chiude ogni possibilità di cambiamento nell’altro. Nel v. 5, attraverso i verbi negativi, l’agape appare come il dinamismo operativo che fa uscire la persona dal cerchio del suo privato interesse, per aprirla a un agire costruttivo del bene altrui.
Il credente ha per vocazione di essere rappresentativo dell’umanità secondo Dio. L’agape è il modo di vivere la nostra umanità come la vuole Dio. Il credente attraverso l’agape riscopre la sua vocazione umana: essere immagine di Dio.
La dinamica dei verbi del v. 7 è interessante, innanzitutto perché ciascuno ha per oggetto «tutto», con una sottolineatura della dimensione della totalità. Il messaggio, nonostante la diversità dei verbi è omogeneo. Il primo verbo, «coprire», significa anche «sostenere»; mantenendo entrambi i sensi, da un lato esso anticipa gli altri tre dall’altro allude alla capacità di sostenere ogni avversità e difficoltà. In questa prospettiva «credere» vuol dire rimettersi nelle mani di Dio, manifestando così una totale fiducia in Lui e nella vita, al punto che niente ha la forza di gettare nella disperazione. «Sperare» esprime la tensione verso la meta, l’attesa costante che permette all’uomo, anche nelle situazioni più critiche, di aprirsi a futuri sviluppi positivi. Ogni giorno, infine, c’è bisogno di «perseverare», azione che si manifesta soprattutto come costanza.
Nella prima parte Paolo ha detto che la carità è essenziale e garantisce l’identità del credente il cui unico status viene appunto dall’agape. Nella seconda parte (vv. 4-7) la carità si esprime in diversi modi, e la via proposta da Paolo prende in considerazione la nostra umanità.
L’amore, afferma Paolo, non avrà fine, non cadrà mai, perché l’agape «è la prolessi dell’eternità nel frattempo». Ogni esperienza di amore, in quanto esperienza ed espressione dell’amore divino, anticipa l’eternità, rappresenta un frammento della condizione definitiva a cui l’uomo è chiamato, quando sarà del tutto conformato a Cristo. Per questo a ragione si può affermare che la bellezza salverà il mondo, non la bellezza estetica, ma quella che si rivela in ogni gesto d’amore che ripropone, incarna e attualizza l’amore dell’Uomo agapico per eccellenza.

Piste per la riflessione e la preghiera

Riprendo il testo cercando di entrare nel suo movimento e nella sua logica, lasciando che le affermazioni di Paolo interpellino la mia vita di credente.
- Quale relazione stabilisco tra agape e carismi, e cosa desidero avere come dono più importante.
- Paolo parla alla prima persona confessando così il suo bisogno di avere la carità, il pentimento per non averla e rivolgendo un invito a desiderare di averla. Faccio mio lo stile di Paolo traducendolo in preghiera
- Considero il rapporto necessario che Paolo stabilisce tra la fede e la carità e la loro reciproca e determinante rilevanza per l’identità del credente
- Che cosa suscita in me, rispetto al servizio e all’impegno concreto che mi viene domandato e rispetto ai bisogni che urgono, l’affermazione che la caratteristica essenziale e imprescindibile per un credente non è il fare o l’avere, ma l’essere e che l’essere è determinato dall’amore?
- Il confronto con il testo paolino mi permette di riconoscere il male sottile e subdolo di cui mi rendo responsabile proprio perchè sono una persona spirituale e impegnata nell’azione di carità. Rendo grazie per il servizio alla verità che questo testo compie, chiedo perdono per il male a cui riesco a dare nome. Quali scelte concrete questa visione mi induce a fare?
- Tutte le azioni compiute dall’agape elencate nei vv. 4-7 hanno trovato compimento e piena realizzazione in Gesù. Provo a sostituire il suo nome ad «amore» e faccio tornare alla memoria gli episodi del vangelo che illustrano ciascuna delle azioni elencate. Trasformo in preghiera la contemplazione dell’amore di Gesù che si è fatto storia nella vita degli uomini per renderli partecipi dell’agape divina e trasformarli, anticipando l’eternità.

sabato 1 marzo 2008

Coro Parrocchiale

Partendo dall' intervento di Elena, che condivido in pieno, penso che uno dei meriti del nostro coro, sia quello di aver contribuito a sfatare l' idea che il coro parrocchiale corrisponda per forza
ad un gruppo di anziani, o quasi, che sitrova ogni tanto per cantare. Magari come capita.
A questo proposito, consiglio di andare a rileggere la riflessione di Don Adelino, pubblicata
sul volumetto che celebra i trent'anni del Coro.
Azione dello Spirito Santo, felici intuizioni di Don Dario e di chi contribuì a far nascere il coro,
diedero vita ad un gruppo unico, forse controcorrente per l'epoca, ma senz' altro capace di vivere
il canto come servizio alla comunità, modo di stare insieme facendo qualcosa di bello, piacevole ed importante.
Proposta accattivante e raggiungibile per tutti, specialmente per i giovani.
Tocca a noi ora, coristi attuali, molti dei quali giovani (guarda caso!) proseguire in qusto senso,
come del resto abbiamo sempre cercato di fare in questi anni.
Studiare ed apprendere canti impegnativi, richiede impegno, partecipazione alle prove, fatica, apertura del cuore, attenzione all'altro e speranza.
Tutto questo serve anche perchè il coro continui ad essere: servizio gioioso e prezioso per la
comunità, crescita spirituale e culturale per ognuno, modo bello ed importante per stare insieme,
proposta ineressante e raggiungibile per i giovani.
A chi si complimenta e si meraviglia per la presenza continua, ed anche qualitativamente apprezzabile del coro, diciamo che non facciamo niente di eccezionale.
Ma semlicemente "Normale", normale e molto importante.