domenica 18 luglio 2010

Auguri

Anche se con imperdonabile ritardo: "BUON COMPLEANNO PRESIDENTE"

giovedì 8 luglio 2010

Bepi De MArzi raccontato da Clemente Mazzetta

Bepi De Marzi
Ha fatto il paracadutista, ha suonato nei night, ha scritto e insegnato musica, ha diretto cori, segue “X Factor”, il programma musicale della Rai, che giudica davvero eccezionale: “Rivela le grandi qualità canore e musicali dei nostri giovani, ma mi lascia con l’amaro in bocca quando penso alla mancanza di futuro professionale per questi ragazzi, pur bravissimi”. Si chiama Bepi de Marzi. Oggi è unanimemente considerato uno dei maggiori compositori italiani nella musica d’autore di ispirazione popolare. Mezzo secolo fa scrisse e musicò uno dei canti più belli e struggenti della montagna, tradotto in 134 lingue, cantato dal Giappone alle Ande, nell’Europa del Nord, fra i Lapponi e l’Africa più lontana. Quel ‘Signore delle cime’, che è assieme canto e preghiera. Espressione di dolore e di speranza. “Lo scrissi quasi di getto, quando avevo 23 anni. Me lo avevano chiesto i miei amici del coro I crodaioli (fondato nel 1958) per ricordare un amico morto in montagna: una slavina l’aveva portato via. L’avevano cercato inutilmente. Solo lo sciogliersi delle nevi aveva restituito il suo corpo…”.
Il Caffè ha incontrato Bepi De Marzi, 73 anni, d’origine veneta, di Arzignano, a Falmenta (Val Cannobina), dove è solito passare qualche giorno di vacanza durante l’anno. “Ricordo che ci misi poco, venti minuti, forse mezz’ora per scrivere testo e musica del Signore delle cime - continua -; vede, ho questa caratteristica, se così si può dire: di solito penso per un po’ di tempo cosa fare e aspetto l’ispirazione melodica. Se questa arriva, mi siedo al pianoforte e inizio subito a suonare. Non c’è niente di misterioso. Si tratta di mestiere. L’ispirazione o viene o non viene. Sono solito dire, prendendo a prestito un frase di Goffredo Parise, che la poesia va e viene e quando viene bisogna saperla tenere”.
Così fece allora, scrivendo quel Signore delle vette, che poi divenne Signore delle cime, perché più facilmente cantabile. “Il testo non è niente di speciale, le parole sono abbastanza ovvie: si tratta di due strofe consequenziali: (‘Dio del cielo,Signore delle cime/un nostro amico hai chiesto alla montagna/. Ma Ti preghiamo: Su nel paradiso/, lascialo andare per le tue montagne.
Santa Maria,
Signora della neve/, copri col bianco,
soffice mantello/ il nostro amico, il nostro fratello/.
Su nel paradiso, lascialo andare/per le tue montagne’). Un testo semplice a cui a cui ogni tanto aggiungono una terza strofa, che io, in verità, non ho mai scritto…”
Ma negli anni ‘50 rappresentava il primo canto di montagna non eroico, non retorico, al di fuori del genere guerresco, estraneo al repertorio degli alpini e delle canzoni montanare. “Allora, un’ espressione simile effettivamente non esisteva - spiega -; credo che il suo successo sia dipeso, in parte dalla melodia: è molto cantabile e facilmente memorizzabile e, per il resto, dalla sua versatilità: è infatti utilizzabile come canto di preghiera, come canto di ricordo, come canto di montagna”. Con una semplicità d’impianto, ma con grande impatto emotivo, frutto di una riuscita sintesi fra sentimento e pietas, scioglie il dolore in una speranza cristiana.
“La cosa divertente - aggiunge De Marzi con una gran risata - è che molti pensano sia un vecchissimo canto popolare, il cui autore sia ormai scomparso. E poi nessuno che ricordi il titolo esatto: parlano di Signore delle montagne, di Madonnina delle nevi… storpiano il nome. Lo stesso succedeva a Mario Rigoni Stern che mi diceva: “Se uno almeno si ricordasse il titolo esatto del Sergente nella neve”. Tutti mi parlano del.… Sergente della neve. E se almeno uno indovinasse i titolo di “Arboreto Salvatico”. No, ripetono selvatico, selvatico, senza capire”.
Un’amicizia e una frequentazione assidua con lo scrittore italiano iniziata grazie ad un altro canto, “La contrà de l'Acqua ciara”. Una denuncia della crisi che ha vissuto la montagna, il su spopolamento, l’abbandono subito dell’Arco alpino nel secondo dopoguerra: un Paese di vecchi. (La contrà de l’Acqua ciara/ no zè più de l’alegria/quasi tuti zè’ndà via/solo i veci zè restà/ Le finestre senza fiori/poco fumo dai camini/senza zughi de bambini/ la montagna zè malà)
“Quando composi questa canzone, un mio amico, Carlo Geminiani, che in precedenza mi aveva scritto i testi ispirati ai libri di Giulio Bedeschi sulla seconda guerra mondiale (da Joska la rossa, al Ritorno…), mi convinse ad andare da Mario Rigoni Stern, per fargliela sentire”. Lui, l’ascoltò e ne rimase entusiasta. “Che bella poesia dedicata alla gente della montagna”, mi disse. Una montagna che si stava spopolando, con i montanari - eravamo negli anni ‘60- che scendevano in città e diventavano anonimi abitatori delle periferie urbane”.
Fu così che nacque una profonda amicizia, che si ampliò anche a quella con padre David Maria Turoldo. “Negli ultimi tempi quando salivamo alla sua baita, Rigoni Stern, verso sera tirava fuori la “bottiglia Berlusconi”. Avremmo dovuta berla per festeggiare la partenza di Berlusconi. Ma la bevevamo lo stesso e poi lui ne prendeva un’altra e la metteva in dispensa”.
Quanto all’amicizia con Turoldo, De Marzi negli anni settanta con il Coro polifonico “Nicolò Vicentino”, ha realizzato per la Fonit-Cetra di Milano la prima incisione dei Salmi di Turoldo-Ismaele Passoni. “L’intuizione e il merito di Padre Turoldo è stato di trasferire i salmi biblici in strofe con le giuste consenquenzialità ritmiche così da poterli cantare. Un’operazione unita ad una profondissima ricerca della qualità poetica del testo”. I salmi sono poi stati reincisi nel 2006 con le voci del suo coro “I Crodaioli.
“Turoldo era il nono figlio di una famiglia poverissima del Veneto - ricorda De Marzi -, nel suo raccontare la vita, andava in cerca delle giustificazione per poter rimanere prete; ricorreva a metafore. Mi rimase impressa quella della figlia di Jephte che viene sacrificata dal padre di ritorno da una guerra vittoriosa e che piange la sua verginità inutile. Quando ho letto la sua poesia dedicata alla figlia di Jephte, non ho potuto fare a meno di pensare che questo fosse il suo pianto di uomo sacrificato alla Chiesa. Poverissimo, magrissimo era stato mandato in seminario per scampare la fame. C’è un libro meraviglioso, “Mia terra addio”, in cui lui racconta come i compagni lo avevano soprannominato spaventapasseri. Quando l’ho conosciuto era un omone grande, imponente, ma mi diceva: “Bepi, sogno ancora di essere uno spaurà, uno spaventapasseri”. Ma è stato un uomo impegnatissimo e fedele alla sua Chiesa, nonostante tutto. Le sue prediche in Duomo a Milano negli anni ’40 erano seguitissime, facevano discutere. Poi quando nel dopoguerra il ministro democristiano Scelba fece chiudere Nomadelfia dai celerini, il cardinale Ottaviani lo mandò in esilio fuori d’Italia, con questa frase: “Fatelo girare perché non coaguli”. Solo quando divenne papa Giovanni XXIII, il regista Ermanno Olmi chiese che potesse rientrare”. De Marzi si dichiara cattolico e credente: “Ma per esserlo, come mi ripeteva spesso padre Turoldo, bisogna essere anticlericali”. Come autore De Marzi ha composto molta musica sacra dopo i diplomi in organo, composizione organistica, pianoforte e studi di direzione e composizione. Ma per altri versi ha avuto una vita avventurosa. “Feci la naja come alpino, anzi come paracadutista, ci buttavamo da un aereo malandato sulle Alpi, ma per decollare dovevamo spostarci tutti verso la carlinga, altrimenti non s’alzava. Poi, dopo il diploma, me ne andai in Germania con un gruppo di amici. Avevamo messo in piedi un complessino e suonavamo nei night. Accompagnavamo le spogliarelliste durante la loro esibizione. Fu un periodo di grandi esperienze. Quando tornai a casa mia madre mi guardò e disse: “Bepi, come te xe sèco”.(Ovvero come sei magro). E giù una risata
De Marzi, spesso critico nei confronti della musica liturgica, ritiene ormai esaurita la funzione sociale e culturale dei cori di montagna. Detto da uno che dirige da mezzo secolo un coro di montagna è, a dir poco, clamoroso. “Eppure è così - spiega -, perché il canto della montagna in verità non è mai esistito. In montagna si suonava, non si cantava. Il canto è un’invenzione successiva: degli anni venti dei cittadini organizzati dall’escursionismo di massa del fascismo che salgono in montagna e che cantano sul modello. È cosi che è nato l’equivoco del canto della montagna, dei cori che credono di cantare la montagna”. E che invece è una mistificazione, una rappresentazione fra il dramma e l’idilliaco, cartoline turistiche. La melodia degli Alpini, sostiene in sintesi De Marzi, non è mai esistita, perché la montagna è stata musicata dalla città, perché l’organizzazione corale maschile è stata un’invenzione trentina degli anni ’20, del coro Sat. Canti in cui le donne non c’entrano, o c’entrano poco.“Per questo è preferibile usare il termine di coralità di ispirazione popolare. Il vero canto popolare femminile è quello delle mondine, delle filandere”. I cori dell’arco alpino, aggiunge, che continuano a riproporre un repertorio datato, una messa in scena ormai desueta fatta di divise alpine “sono in declino, e ormai anche l’età stessa dei coristi è avanzata”. Come uscirne? Quali soluzioni? “Occorre cercare una formula innovatrice dal punto di vista armonico. Altrimenti moriamo. Penso che futuro dei cori possa venire da una riduzione degli organici, da una loro specializzazione e dalla ricerca di temi nuovi, raccontando magari il passato, ma attualizzato, non retorico, e interessando le nuove generazioni”. Quelle affascinate dal fenomeno televisivo di X Factor, uno spettacolo interessante “che evidenzia la grande passione e capacità dei giovani - conclude De Marzi - ma che rischia di essere la fabbrica delle illusioni visto che il mercato musicale in Italia è ormai chiuso”.

cmazzetta@caffe.ch
edizione 2009-04-19